Con batterie sempre più capienti nei nostri smartphone, e-bike e auto elettriche, sono necessari tempi di ricarica sempre più lunghi. In alternativa si può aumentare la potenza di ricarica a discapito della longevità delle odierne batterie al litio. Un compromesso a volte accettabile ma che mette alla luce uno dei limiti della tecnologia attuale. Questo compromesso in futuro potrebbe non esistere più, grazie a delle batterie quantiche che diminuiscono i tempi di ricarica all’aumentare della capacità delle stesse.
Le batterie quantiche si basano sui principi della meccanica quantistica, che pone particolare riguardo ai fenomeni di energia atomica e subatomica, dove le leggi della fisica classica risultano inadeguate. La meccanica quantistica ha permesso lo sviluppo di molte tecnologie dell’ultimo mezzo secolo, dalla medicina all’industria.
Ogni molecola rappresenta un’unità che può esistere in uno stato di sovrapposizione quantistica di due livelli di energia (fondamentale ed eccitato), simile al modo in cui un qubit, l’unità base di informazione quantistica, può essere sia 0 che 1 contemporaneamente nei computer quantistici
Giulio Cerullo, ricercatore presso il Dipartimento di fisica del Politecnico di Milano
Basti pensare che una certa proprietà della funzione d’onda dell’elettrone spiega come e perché i metalli conducono elettricità, e quindi conduce allo studio dei semiconduttori e all’invenzione del transistor, da cui nasce il circuito integrato, il computer e internet. Il principio di base delle batterie quantiche è l’uso di semiconduttori che sfruttano il principio della sovrapposizione quantistica. Essa determina una netta riduzione del tempo di ricarica all’aumentare delle “microcavità” presenti nella batteria.
L’idea delle batterie quantiche superveloci prende ispirazione dal fenomeno ampiamente studiato della superradianza, grazie al quale la velocità con cui la materia emette o assorbe la luce può essere modificata dal suo ambiente. Un fenomeno per certi versi simile alla risonanza. L’interdipendenza costruttiva nel processo di emissione significa che dato un insieme N di emettitori, il tempo di emissione scala come 1/N, così come la potenza di picco dell’emissione scala come N2.
Per immagazzinare energia si è considerato il processo inverso, il superassorbimento, più difficile da dimostrare a causa della difficoltà nel misurare i processi ultraveloci e studiato solo per un piccolo numero di atomi. La peculiarità del superassorbimento è il concetto di scala superestensiva dell’assorbimento: l’idea chiave alla base delle batterie quantistiche superveloci è che sistemi più grandi assorbono più velocemente.
Per superare le difficoltà di misurazione sono state usate delle microcavità organiche e la spettroscopia ottica pompa-sonda ultraveloce. Lo studio mette in evidenza il potenziale delle future applicazioni basate sulla carica superextensive. Particolare attenzione si è posta nell’analizzare il vantaggio quantico nella ricarica; ciò getta anche le basi alla sfida di applicare in maniera pratica questo effetto e integrarlo in dispositivi dove l’energia può essere estratta e usata in efficientemente. Il modello usato sperimentalmente fornisce un percorso diretto per l’integrazione in un dispositivo fotovoltaico organico.
Per quanto la tecnologia abbia il potenziale di rivoluzionare i dispositivi ai quali siamo abituati, non sappiamo quando si arriverà ad un prodotto finito. È infatti facile nutrire un certo distacco quando ci si trova di fronte ad annunciate rivoluzioni di una tecnologia già affermata. Solo una piccola parte del prodotto della ricerca raggiunge uno stadio finale e una parte ancor più piccola è così audace da raggiungere il mercato. Di rivoluzioni nei dispositivi di immagazzinamento di energia se ne sente parlare spesso. Già nel 2017 Toshiba annunciava batterie a ricarica ultra rapida, che avrebbero dovuto raggiungere il mercato nel 2019 ma ad oggi non se ne hanno notizie.
Ci auguriamo il meglio per lo studio al quale hanno lavorato Teresilla Virgili dell’Istituto di fotonica e nanotecnologie del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Cnr-Ifn) e Giulio Cerullo del Dipartimento di Fisica del Politecnico di Milano.
Articolo a cura di Francesco Porcelli